Redimere Berto. La colpa di uno scrittore

Chi si occupa di critica letteraria, spesso ritiene che il suo compito sia in qualche modo riconoscere l’eccellenza e legittimarne dunque la divulgazione. Il giusto posto in cui questa operazione dovrebbe compiersi era, e non è più, l’Accademia. Chi decide la grandezza di un artista? Chi eleva uno scrittore al gotha dei grandi? Chi, invece, lo condanna alla damnatio memoriae?
Il 1964 è l’anno della gloria, ma non quello del riconoscimento definitivo. Il male oscuro di Giuseppe Berto vinse lo stesso anno il Premio Viareggio e il Premio Campiello; l’opera, un quasi ininterrotto flusso di coscienza, che spesso ha fatto accostare l’autore di Mogliano Veneto all’irlandese Joyce, è il capolavoro di una vita incredibilmente sofferta.

La camicia nera
Nato e cresciuto nella provincia di Treviso, Giuseppe Berto attraversa i grandi cambiamenti del primo Novecento da protagonista. Arruolatosi nel Regio Esercito, combatte in Africa Orientale, indossa con orgoglio la camicia nera e, durante la campagna di Tunisia nel ‘43, viene catturato e spedito nel campo di prigionia di Hereford in Texas, qui, insieme ad altri grandi dimenticati, come Dante Troisi e Gaetano Tumiati, si rifiuta di collaborare.

La perduta gente
Il periodo texano è nodo precipuo del percorso di Berto perché è qui che la scrittura smette di essere divertissement di un laureato in Lettere o mero reportage di guerra. Mentre è imprigionato nelle terre che sono state di Faulkner ed Hemingway, nonostante il filo spinato e i muri, lo stile di Berto si plasma in una scrittura che molto terrà con se di quegli americani, gli stessi che Elio Vittorini cercava di portare in Italia nonostante le censure del Fascismo e l’intervento riparatore di Emilio Cecchi.
È un momento della storia e della letteratura italiana che – nonostante si avvicini il secolo da quegli avvenimenti – fatichiamo ancora a conoscere, anche a causa di un establishment culturale del dopoguerra che ha monopolizzato, in primis, il panorama letterario, spostando il baricentro del confronto esclusivamente sul piano politico e non su quello artistico. Vittima di ciò, non furono solo autori fascisti, come Berto, ma anche scrittori vicini ma non ciecamente in linea col PCI, come accadde a Elio Vittorini, il cui scontro con l’allora segretario Palmiro Togliatti portò a un’insanabile rottura.
In questa congerie, Berto torna in Italia con quelle che potremmo definire le “opere della prigionia” e che invece, in modo “genericamente deprimente” – così scrisse Corrado Piancastelli – chiamiamo ancora neorealiste. Di certo, La perduta gente, romanzo del 1947, il cui titolo di eco dantesca verrà cambiato da Leo Longanesi in Il cielo è rosso, si situa nel panorama neorealista, tuttavia, risulta perlomeno incongruente, considerando che la trama è ambientata durante il bombardamento di Treviso del 1944, ma l’autore la scrive oltreoceano, dietro le sbarre, ponendosi dunque più come sognatore che testimone dell’accaduto. Il romanzo andò abbastanza bene, Berto assaggerà Un po’ di successo, poi, la malattia.

Il male
Dieci anni di depressione sono una vita. L’incontro con lo psicanalista Nicola Perrotti sarà fondamentale, sarà lui a spingere Berto a dare in pasto alla scrittura i suoi conflitti interiori, le sue tragedie irrisolte, quel male oscuro che è doloroso indagare e che diventerà titolo dell’opera che lo consacrerà. Il complesso edipico, il senso di colpa che non lo abbandonerà mai. In terapia, Berto, novello Zeno Cosini, si riscopre protagonista della sua opera letteraria e, come ha documentato in maniera magistrale Saverio Vita, la scrittura autobiografica diviene cura e redenzione. Per anni attaccato da importanti intellettuali di sinistra, primo tra tutti Alberto Moravia, che dell’autore veneto non volle mai riconoscere la grandezza, Berto non si riuscì mai a togliere di dosso l’etichetta di “fascista”. Definito invece “traditore” da chi ancora si dichiarava fedele al duce, era adesso rinnegato da tutti, troppo coerente per ritrattare, nessuno gli volle riconoscere la sua vera essenza di anarchico, come invece si definiva. Ancora una volta si giudicava l’uomo e non l’opera. Ma Il male oscuro, una volta pubblicato, fu subito un grande successo. La depressione però, non lo lascio mai davvero, nel ’64 per L’Europeo scriverà: «Sono quindi ancora malato e credo che non guarirò mai. Però sono guarito per quel tanto che volevo disperatamente guarire, ossia non ho più paura di scrivere».

Il romanzo nel 1990 verrà trasposto in film da Mario Monicelli, con gli indimenticabili Giancarlo Giannini e Stefania Sandrelli. Nel frattempo altre opere, poi il ritiro da Roma e il rifugio in Calabria, a Capo Vaticano, dove la sera amava ammirare la costa della Sicilia, terra promessa a lui negata, come La Gloria.

Un’importante operazione di recupero è stata iniziata già qualche anno fa dall’editore Neri Pozza che ha intrapreso una completa e arricchita ripubblicazione delle opere dello scrittore. Nel frattempo, l’Associazione Culturale Giuseppe Berto continua indefessa, da più di un decennio ormai, a occuparsi della memoria e della diffusione delle opere di questo grande autore del Novecento italiano, a cui dovremmo riconoscere molto più di quanto gli abbiamo negato. D’altronde, come si è soliti fare in questo paese, anche Berto, dopo un processo sommario, venne dichiarato colpevole di essere stato se stesso.